In scuola sono presenti diverse dimensioni di complessità. La prima è la complessità del reale, del quotidiano extrascolastico, che abbiamo il dovere/compito di portare in classe. La sfida che questo livello di complessità induce, può essere affrontata con l’applicazione di una strategia ragionata di Project Based Learning. Abbiamo poi una dimensione di complessità propria della classe: gli studenti apprendono e migliorano con una velocità considerevole e al termine del progetto lo studente appare già diverso da quello che era inizialmente e a cui era stato richiesto di pianificare. Da ultimo abbiamo la complessità indotta da un ambiente di apprendimento in continua mutazione: tecnologie, riforme scolastiche, aspettative delle famiglie ed altro ancora. Per affrontare l’intero bouquet di complessità un approccio PBL ragionato non è più sufficiente: riteniamo che un approccio PBL Agile, opportunamente tarato, possa rappresentare la strategia d’elezione per gestire questi flussi dirompenti di cambiamento. Insomma Il livello di complessità è elevato al punto da richiedere a noi insegnanti di essere più Agili dell’Agile stesso. (Enzo Zecchi)
Il problema principale che la scuola si trova ad affrontare oggi è intervenire sull’impianto educazionale per renderlo al passo con i tempi, per rendere il tempo trascorso a scuola dai ragazzi un tempo utile per inserirsi bene nella società, nel quotidiano extrascolastico. Tre sono i mutamenti che la scuola dovrebbe concretizzare nell’immediato: sviluppare una didattica centrata sullo studente, implementare una didattica per competenze, ossia capace di favorire e certificare le competenze, e finalmente una didattica basata su un solido pensiero anche costruzionista. Il Project Based Learning (PBL) ha le caratteristiche per raggiungere questi obiettivi.
Il PBL è un approccio completo per insegnare e favorire gli apprendimenti in classe e per stimolare gli studenti allo sviluppo di problemi autentici (Blumenfeld …), ossia il PBL fornisce agli studenti gli strumenti per affrontare e risolvere i problemi del quotidiano. E’ soprattutto su questo aspetto che voglio concentrami ora. “All life is problem solving” è il titolo di uno degli ultimi libri di Popper (1999) e Jonassen, in modo perentorio, afferma che “l’unico obiettivo cognitivo legittimo del sistema educazionale (formale, informale o altro) in ogni contesto educativo (scuole pubbliche, università e soprattutto formazione professionale) è il problem solving”
Ma quali problemi? Chiarisco subito che non mi riferisco a quelli tipici delle discipline soprattutto scientifiche. Non è necessario introdurre un nuovo paradigma metodologico per insegnare a risolvere problemi di matematica, di fisica o altro ancora. Lo sappiamo fare bene, lo abbiamo sempre fatto e con una buona dose di successo. Questi problemi, spesso, sono difficili, complicati ma non complessi. Sono caratterizzati da un numero limitato di variabili e parametri e, riconoscendo l’equazione sottesa alla narrazione del problema, l’individuazione della soluzione si traduce generalmente nella risoluzione dell’equazione stessa. Ho semplificato un po’ ma di questo più o meno si tratta. Sono quelli che Jonassen, nella sua classificazione, definisce story problems e li colloca al terzo posto della sua classifica di 11 tipi di problemi: dal più strutturato al meno strutturato, dal semplice al complesso, dallo statico al dinamico.
I problemi autentici, quelli di cui stiamo parlando sono i tipici problemi del quotidiano: caratterizzati da un alto livello di complessità, occupano i posti più alti nella classifica di Jonassen. Per questa tipologia di problemi non esiste necessariamente una soluzione e trovarne una significa spesso individuare la meno peggio. Sono problemi che non è facile inquadrare e per i quali non è nemmeno facile individuare i dati necessari a risolverli: la soluzione spesso dipende dal contesto e dalla prospettiva in cui ci si pone.
Bauman, in modo geniale, ha chiamato liquida la vita intessuta di questi problemi: rende bene l’idea di come ci troviamo di fronte a situazioni in cui anche i contorni appaiono sfumati, non definiti. Potrei procedere con esempi. Una per tutte la categoria dei problemi indotti dalle tecnologie. Queste producono innumerevoli vantaggi, semplificano molte procedure ma in molti casi sono la causa di analfabetismi di ritorno. La persona a proprio agio nel tessuto dei gesti quotidiani classici, improvvisamente rischia di trovarsi disorientato. Fare il biglietto per un treno ad Alta Velocità significa in molti casi doversi arrangiare con una cassa automatica o via Internet. Pagare in un supermercato, in un distributore di carburanti, in un centro medico… diventa un’azione sempre più automatica e spersonalizzata; consultare un servizio telefonico significa confrontarsi con dei risponditori che tutto fanno tranne che capire le esigenze di chi telefona; interagire con queste tecnologie richiede la conoscenza di un nuovo vocabolario fatto spesso di neologismi o addirittura di termini importati pari pari dall’inglese …. Chi, per qualche ragione, non è rimasto al passo con questi inserimenti tecnologici, si trova improvvisamente in difficoltà, quasi estraneo, in un mondo che fino a pochi anni prima padroneggiava interamente: una sorta di imprevista senilità precoce. Sono solo alcuni esempi, banali e molto evidenti: molte altre sono le categorie di problemi che inducono complessità e spesso anche più subdole. Il problema di trovare lavoro oggi è senza dubbio molto diverso da quello vissuto dalle generazioni precedenti ed anche il problema di quale formazione per un lavoro futuro, che forse oggi ancora non esiste, è estremamente complesso; e su questa via si potrebbe continuare a lungo.
Una mission del sistema educativo deve essere dunque quella di educare i ragazzi ad affrontare questa tipologia problemi e l’auspicio del MIUR ad introdurre in classe compiti di realtà e progetti multidisciplinari va proprio in questa direzione.
Nell’implementare il PBL (PBL Lepida Scuola) uno dei principi di fondo che mi hanno ispirato è stato di non far sviluppare ai ragazzi i progetti seguendo un approccio fai da te, ma fornire loro gli elementi fondamentali del Project Management, scegliendo in particolare quegli step che concretamente si possono portare in classe e che sono ricchi di valenza educazionale. Il modello Waterfall, cui inizialmente mi sono ispirato, presto si è dimostrato inadeguato ed un primo aggiustamento è consistito nell’introdurre un approccio iterativo, arrivare alla soluzione per approssimazioni successive. La complessità delle problematiche autentiche che si andavano a toccare strideva con la pianificazione rigorosa e deterministica. La scelta degli elementi di Project Management possibili e coerenti con i ritmi della classe, l’introduzione di una forma naif di iterazione, mi ha portato ad un approccio ragionato al PBL, PBL Lepida Scuola appunto, che in questi anni abbiamo applicato con un buon successo in molte realtà scolastiche di ogni ordine e grado.
Due nuove forme di complessità, emergenti in classe, mi spingono a ripensare il modello e a ritararlo con l’introduzione di elementi dell’Agile Project Management.
In primo luogo la complessità indotta dalla fisiologica variazione della risorsa conoscenza dello studente. Un ragazzo affronta lo sviluppo di un progetto per apprendere, quindi la competenza del progettare inizialmente sarà debole rispetto a quello che di cui sarà in possesso al termine del progetto. E questo vale anche per molte altre competenze e conoscenze. Chiedere dunque ad uno studente di pianificare lo sviluppo di un progetto con il set di conoscenze e competenze, molto limitate, che ha disposizione e che progressivamente cresceranno, rappresenta un problema all’interno del problema. Un problema fisiologico, non patologico, comunque un problema che introduce in classe un nuovo livello di complessità.
In secondo luogo la complessità che nasce a fronte dei nuovi e mutevoli ambienti di apprendimento in cui lo studente si trova a sviluppare progetti. L’introduzione in classe di una pur modesta dotazione di tecnologie permette l’implementazione di ambienti di apprendimento prima confinati al regno dell’utopia. In particolare le risorse che Jonassen, nel suo modello CLE (Constructivistic Learning Environment) di ambiente di apprendimento ha chiamato mind tools, stanno entrando massivamente e diventano strumenti fondamentali per lo sviluppo dei progetti. Gli studenti, che inizialmente non conoscono questi strumenti, progressivamente ne diventano padroni e il loro punto di vista su come risolvere i problemi, su come sviluppare il progetto cambia progressivamente. Come fare a superare questo scoglio, come cercare di rendere gli studenti, quanto prima possibile, a loro agio nel nuovo ambiente di apprendimento rappresenta una sfida importante che riconosco come ulteriore livello di complessità. Il problema è davvero non banale: anche i docenti faticano ad essere padroni dell’ambiente di apprendimento in continua evoluzione.
L’ambiente classe, tradizionalmente ignaro delle tecniche della buona progettazione, si presenta dunque come candidato ideale per l’applicazione delle avanzate tecniche Agili. I primi tentativi basati soprattutto su alcuni elementi derivati dalle tecniche Scrum e Extreme Programming, ed adattati con molta attenzione, mi confortano in questo sforzo.
Fondamentale è il ruolo del docente che diventa padrone di un piccolo ma importante bouquet di tecniche per l’implementazione di progetti Agili. Paradossalmente a noi docenti, che entriamo in punta di piedi e con molta incertezza nel mondo dei progetti, proprio a noi è richiesto di trasformarci in insegnanti più Agili dell’Agile stesso.
P.S. Ripensando a Schon mi sovviene della sua collocazione dell’Insegnante in classe B rispetto a Medici, Avvocati, Architetti, tutti in classe A. E’ forse l’occasione per fare un salto di classe?